Articolo di Laura Coci sulle fantascientiste russofone (fonte Vitamine Vaganti)
«Che reato ho commesso?»
«Nessuno».
«E allora per quale motivo ha intenzione di interrogarmi?»
«È il mio lavoro».
Alla quarta pagina, il romanzo Zero (Живущий in lingua originale russa, Vivente in traduzione letterale italiana) già sgomenta. L’autrice è Anna Starobinets (questa la trascrizione del cognome di lei dal cirillico adottata a livello internazionale, per quanto in Italia sia conosciuta anche come Starobinec), giovane, geniale, quanto – come si vedrà – coraggiosa e sfortunata scrittrice dell’immaginazione.
«Ho pensato: se dentro la pancia ho uno della Lista Nera — che ne so, un maniaco sul genere del Figlio del Macellaio o del Marcio — non me lo faranno nemmeno vedere, nemmeno una volta; lo rinchiuderanno in una Casa di correzione, in isolamento, a tre pasti al giorno e non gli diranno mai niente, non una sola parola finché non morirà e così lui non capirà mai cos’è successo. Ho pensato: che ipocrisia definirle “di correzione”, quelle case. Nessuno ha mai tentato di correggere niente o nessuno lì dentro, mai. Ce li tengono semplicemente rinchiusi. A pancia piena e bocca chiusa…».
L’identificazione con Hanna, la futura madre sottoposta a interrogatorio, è immediata e lascia la lettrice senza respiro: il primo giorno della luna calante del mese di settembre dell’anno 439 d.V., la giovane donna si trova nello studio medico incaricato di individuare l’in-code del bimbo che darà alla luce (non «figlio», ma «Concepito» prima, «Generato» poi), che sarà parte dell’immenso organismo − al contempo una unità e tre miliardi – che costituisce il Vivente (d.V. sta infatti per “dopo la nascita del Vivente”).
L’ennesima distopia, dunque? No. per quanto poco noto in Italia (è stampato dalla casa editrice Atmosphere nel 2012, un anno dopo la pubblicazione in Russia, nella traduzione di Roberto Lanzi), Zero è un romanzo bello, terribilmente bello, e originalissimo. E per quanto Anna Starobinets conti soltanto due titoli in lingua italiana (l’altro è Paura, silloge di otto racconti edita da Isbn nel 2006), la scrittrice è conosciuta in ambito internazionale e tradotta, per esempio, in Gran Bretagna (in particolare i suoi libri per giovani lettori) e in Spagna (ben otto titoli), ove il suo Посмотри на него (Tienes que mirar, in italiano Guardalo) è inserito tra i migliori libri del 2021 secondo diversi media nazionali e ove, nello stesso anno, vince il Premio del Festival de terror, fantasía y ciencia ficción indetto da Celsius 232.
In un futuro indeterminato, in seguito a una catastrofe che ha causato la morte di un altissimo numero di persone e di quasi tutti i mammiferi (proliferano, però, insetti e aracnidi), all’interno di una rete social neurale (il sotzio), che in diversi strati (livelli) connette tutti, o quasi, gli esseri umani, si è dunque creato un organismo unitario e immutabile di tre miliardi di uomini e donne, bambine e bambini; tre miliardi di cellule interdipendenti, non una di più e non una di meno: «Il Vivente è pieno di amore e ogni Sua particella ama le altre in ugual misura», risponde Hanna al proprio Generato, che le chiede e la implora di volergli più bene di quanto ne voglia ad altri e altre.
Il piccolo rappresenta un pericolo «per l’armonia del Vivente» − «formata da sei componenti: accettazione, dovere, responsabilità, soddisfazione, stabilità, immortalità» − poiché «il suo in-code non replica nessuno di quelli presenti nel database mondiale dei codici di re-incarnazione, neanche uno dei tre miliardi», che dopo la sua nascita sono, dunque, tre miliardi più uno, perché Zero (questo il nome con cui il bimbo è comunemente chiamato) è estraneo al ciclo di pausa forzata di un individuo anziano e di conseguente replicazione in un nuovo corpo, che ora governa la comunità umana. Il Vivente, infatti, vanta la sconfitta della morte («Niente morte!» è il saluto corrente): per legge, le persone che raggiungono i sessant’anni (questo il limite ultimo) si recano al Festival dell’Aiuto alla Natura e qui, ascoltando il mantra «andrà tutto bene», sono terminate nella zona della Pausa; dopo cinque fatidici secondi di «buio», il loro in-code si trasferisce nei feti che sono concepiti grazie ai molteplici accoppiamenti coatti («eccelso dovere» nei confronti del Vivente), che avvengono in contemporanea nella zona della Riproduzione, «nell’ambito del programma di controllo del numero della popolazione, in conformità con la legge sulla pianificazione».
Pericoloso, sovrannumerario, sconosciuto, escluso da sotzio («la creazione di una cellula supplementare potrebbe causare una paralisi delle funzioni» della rete), Zero è solo e diverso, quando invece avrebbe voluto «semplicemente essere come tutti»: la vicenda ne racconta la caduta, l’ascesa, la fine, in una narrazione straniata e policentrica, in cui si alternano – stilema questo della science fiction contemporanea – i punti di vista di personaggi differenti, attraverso riflessioni del protagonista (onnipresente nei pensieri di tutte le particelle del Vivente): estenuanti verbali di interrogatori; dialoghi tra agenti del Sop – Servizio d’Ordine Planetario; incontri virtuali in modalità lussuria, ove «ognuno dei cinque sensi a te accessibili viene condiviso con i tuoi amici»; annotazioni personali di utenti di sotzio; trascrizioni di interrogatori di soggetti in correzione. I confini di una dimensione digitale indistinguibile da quella reale si precisano progressivamente e risultano sempre più stretti e soffocanti, quasi una sequenza di allucinazioni, incubi, ossessioni: l’esistenza è noia, ritualità, dovere; il mondo è asettico, senza emozioni (né dolore né gioia), affinché gli umani siano ridotti a docili esecutori del volere del governo; il Consiglio degli Otto gode di privilegi negati alla popolazione, poiché i suoi componenti non sono soggetti all’obbligo della pausa, dell’accoppiamento con molteplici partner, della consegna dei generati al compimento del settimo anno di questi. E no, la paura della morte non è sconfitta, perché nonostante gli esperimenti scientifici nessuno sa che accada nei fatidici cinque secondi di buio e non sempre è dato serbare memoria delle vite precedenti.
In questo mondo orribile, fondato su menzogna e sopraffazione, nel quale è impossibile agire secondo la propria volontà («Probabilmente sta tentando eseguire qualcosa di non del tutto conforme…», ammonisce implacabile il virtual doctor), in ragione dell’eccezionalità di cui è portatore Zero rappresenta non una «cellula maligna aliena nel corpo del Vivente», ma una speranza di libertà e salvezza: «lui è l’inizio e la fine! […] È morto per noi! È arso nel sacro fuoco!».
Altro tema fondante, di straordinaria efficacia in questo romanzo che coniuga atmosfere cechoviane e ascendenze cyberpunk – e del quale ancora una volta sarebbe un delitto rivelare lo sviluppo e il finale – è quello dell’internamento in non-luoghi che portano alla perdita del senno, ove si agiscono i meccanismi di deprivazione fisica e psichica dei prigionieri propri delle istituzioni totali, in una discesa nelle tenebre che nega l’esistenza stessa della luce e della possibilità di riscatto e redenzione, poiché, oltretutto, si perpetua all’infinito la condanna degli individui soggetti alla duplicazione del medesimo in-code criminale, come accade al famigerato Figlio del Macellaio, protagonista della serie Killer eterno, e al leggendario Cracker, che «viola qualsiasi password […] supera qualsiasi protezione…».
Anna Starobinets non è moscovita per caso: la sua opera si riallaccia alla grande tradizione russa di Fëdor Dostoevskij, che in Memorie di una casa morta (1861) rievoca i quattro anni di lavori forzati in Siberia (è stato accusato di appartenere a una società segreta sovversiva e in prima battuta condannato alla fucilazione), e di Eduard Limonov, che in Il trionfo della metafisica. Memorie di uno scrittore in prigione (2005) riscrive i mesi trascorsi nella colonia penale n. 13, nelle steppe della regione di Saratov (seguiti a due anni di carcere), pure per l’appartenenza a una formazione politica dichiarata sovversiva. Si legga questo passo, nel quale è sintetizzata l’attività di Cerbero ed Ef, agenti del SOP, in oltre tre secoli: «blitz di cattura e pause precoci, traumi di primo strato e cellule deturpate da virus, retate di spammer e attacchi di hacker; braccavano dissidenti familiste che si rifiutavano di consegnare i propri Generati agli internati, perquisivano le cellule degli eretici-veterocredenti che conservavano la fede nell’antico dio tricefalo, catturavano i vili dissenzienti in tutti gli strati…».
Anna Starobinets si inserisce anche di diritto nella grande tradizione della distopia futurista russa, da Evgenij Zamjatin, autore del visionario e sconvolgente Мы (Noi, 1920), ai fratelli Arkadij e Boris Strugackij, ai quali si deve lo struggente e simbolico Пикник на обочине (Picnic sul ciglio della strada, 1972, da cui il celebre film Stalker di Andrej Tarkovskij, 1979); una tradizione che in tempi recenti ha prodotto altri acclamati romanzi (purtroppo non tradotti in lingua italiana) di scrittrici non solo fantascientiste: Кысь (Slynx, di Tatyana Tolstaya, 2000), 2017 (di Olga Slavnikova, 2006), Вонгозеро (Vongozero di Yana Vagner, 2011, da cui la popolare serie Netflix To the Lake).
Starobinets non scrive soltanto science fiction (e weird): è sufficiente scorrere il suo sito (starobinets.ru) o, in alternativa, spaziare nel web tra pagine in lingua russa, inglese e spagnola per rendersene conto.
Nata a Mosca il 25 ottobre 1978, si sposa poco più che ventenne con lo scrittore Alexander ‘Sasha’ Garros (bielorusso di nascita, lettone di adozione), dal quale ha una figlia nel 2004 e un figlio nel 2015. Quando il piccolo ha soltanto cinque mesi, nel settembre 2015, a Sasha viene diagnosticato un tumore all’esofago: per dargli una possibilità di cura (negata dalla sanità post-sovietica), Anna dà vita a una campagna di crowdfunding, grazie alla quale il marito è portato in una clinica di Tel Aviv, ove muore il 6 aprile 2017, non avendo ancora compiuto quarantadue anni di età. «Sasha è morto. Dio non esiste»: scrive quel giorno l’autrice sul proprio profilo Facebook, diario di uno strazio vissuto giorno per giorno, che ancora dura («Tre anni senza Sasha. Ricordo sempre», così il 6 aprile 2020). Non è la prima volta che Anna affronta un dolore tanto grande: nel 2012 al bimbo che aspetta è riscontrata una grave malformazione congenita ai reni, che dopo il parto lo avrebbe portato a morte con sofferenza.
La scrittrice sperimenta su di sé la disumanizzazione del sistema sanitario russo, il vissuto di «mamma andata a male», l’assenza di supporto psicologico di fronte al proprio dramma; si trasferisce temporaneamente a Berlino, e qui trova empatia, ma affronta una disperazione nuova, quella della consapevolezza di una perdita inevitabile, poiché il piccolo da «feto» è ora nominato e percepito come «bambino» e la scelta dell’interruzione di gravidanza si fa perciò ancora più angosciosa. Ecco da dove nasce Посмотри на него (Guardalo, 2017): «Se questo libro aiuta qualcuno con il suo dolore, vorrà dire che non è stato scritto invano. E che, almeno, in qualche modo aveva senso quello che è successo a noi. Ci sono momenti in cui le parole non raggiungono le emozioni, in cui la penna non è altro che uno straccio. Ci sono momenti in cui sì, tuttavia, e le parole sono miracolosamente sufficienti» (traduzione dall’edizione spagnola, già menzionata, del 2021).
Alla morte di Alexander, nel 2017, Anna Starobinets è già una scrittrice affermata: nel 2005 ha pubblicato Переходный возраст (L’età difficile, ovvero Paura, uno dei due titoli italiani); nel 2006 Убежище 3/9 (Rifugio 3/9, thriller metafisico), nel 2008 Резкое похолодание (La recrudescenza del freddo, sette racconti); nel 2009 Страна хороших девочек (Il paese delle bambine sagge, favola per l’infanzia); nel 2011 Котлантида (Gatlantide, pure per l’infanzia); nel 2013 Икарова железа (Icaro di ferro, cinque racconti). Ai giovani lettori e lettrici si dedica poi quasi esclusivamente a partire dal 2018, creando – su richiesta della figlia – il ciclo Зверский детектив (Detective bestiale), di cui è protagonista un vecchio tasso investigatore, con cinque titoli di successo tra lo stesso 2018 e il 2019: quasi a guardare nuovamente verso la vita.
Fioriranno i meli su Marte (И на Марсе будут яблони цвести) è il titolo di una popolare canzone in lingua russa, scritta dal compositore Vano Muradèli su testo del poeta Evghenij Dolmatòvskij per il film di fantascienza Di fronte al sogno (Мечте навстречу, 1963, mai apparso in Italia), in piena epopea spaziale sovietica (la clip con la canzone è visibile al link: www.youtube.com/watch?v=x5DR7v04YnE).
Fioriranno i meli su Marte è anche il titolo scelto da Francesco Verso, scrittore ed editore italiano, per la preziosa antologia di Fantascienza contemporanea russofona date alle stampe nel 2020 nell’ambito di Future Fiction, «un progetto nato per esplorare la biodiversità del futuro» (futurefiction.org). Future Fiction è anche associazione culturale e collana di fantascienza a cura di Francesco Verso e Francesco Mantovani: conta ormai cinquanta libri cartacei e centosessanta uscite digitali, con traduzioni da molte lingue (cinese, russo, inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese, polacco, turco, greco, norvegese, catalano) che vanno a mappare la produzione di oltre trenta paesi.
Un progetto – come afferma Verso in una conversazione del 21 aprile 2022 con chi scrive – che si propone di far conoscere al pubblico del nostro paese la fantascienza non anglofona, ponendo direttamente le culture in contatto tra di loro affinché possano dialogare. Questo avviene grazie alla presenza sul campo di editor locali coraggiosi e competenti, che segnalano con sguardo aperto i testi più stimolanti pubblicati nel proprio paese, mediante le traduzioni effettuate direttamente dalla lingua originale (in questo caso dal russo) senza la mediazione di altre lingue (inglese o francese soprattutto, come avveniva in passato). E grazie a una consapevolezza e a un entusiasmo che a Francesco non mancano: «Ho con la fantascienza russa rapporti pluridecennali: sono stato a Mosca nel 2004 e ho conosciuto scrittori e scrittrici con cui sono tuttora in contatto». Fioriranno i meli su Marte nasce da qui, e dalla collaborazione di una giovane autrice della cosiddetta Onda Colorata, K.A. Teryna: comprende otto racconti, quattro di uomini e quattro di donne, non di nazionalità ma di lingua russa (c’è infatti una scrittrice ucraina).
«Future Fiction ha quasi pronta una seconda antologia di autrici e autori russofoni – dichiara ancora Verso – ma, evidentemente, il periodo non è favorevole, né qui né là: in Russia vi sono problemi di censura e progressivamente, negli anni, l’atmosfera si è militarizzata, si sono imposti i miti dell’aggressività virile e dell’uomo forte, legati al nazionalismo: questo ha portato a sempre minore science fiction (la scienza insegna il relativismo) e a sempre maggiore fantasy (ove prevalgono irrazionalità e ideologia), e anche a un restringimento degli spazi di libertà di espressione e a maggiori difficoltà per le donne che scrivono di fantascienza. Da sempre, infatti, la fantascienza rappresenta un ramo della letteratura controcorrente, capace di difendere le persone dai soprusi del potere, di trasmettere valori di pace, convivenza, rispetto. E ora, decisamente, il momento è avverso».
Le quattro autrici presenti in Fioriranno i meli su Marte, ciascuna con un racconto, sono, nell’ordine: Aleksandra Davydova (pseudonimo di Aleksandra Zlotnitskaja), con Il maggiordomo nero (2011), K.A. Teryna (pseudonimo di Kateryna Bachilo) con Il pilota di stagno (2013), Elena Michalchova con Dichiarati pericolosi (2013), Olga Cighirinskaja con Dea di ferro della misericordia (2012).
Fondamentali le brevi presentazioni biografiche premesse ai testi nell’antologia Future Fiction: Davydova «è nata a Rostov sul Don, e si è laureata presso la facoltà di Filologia dell’Università Federale del Sud della medesima città. Adesso vive a Mosca, lavora come game designer e si occupa principalmente di script e localizzazione di videogiochi. Traduce anche fumetti e narrativa dall’inglese»; Michalchova, invece, «è nata a Nižnij Novgorod. Laureata in giurisprudenza, ha lavorato come procuratore e, dopo aver smesso, ha iniziato a scrivere storie poliziesche, su cui lavora anche adesso con successo».
Il maggiordomo nero (tradotto da Evelina Croce) presenta una umanità divisa tra chi è dotato di ricettori neurali (i policromi) e chi no (i neri): questi ultimi sono marginalizzati in ruoli subalterni – come il protagonista Cristoph, domestico di una famiglia agiata −, tuttavia godono di opportunità impensabili per buona parte della popolazione: sanno affrontare emozioni, conoscono il mistero dell’amore, leggono libri veri; la loro apparente sventura si trasforma in occasione di autenticità, di esercizio del libero arbitrio in un sistema grigio e triste, a dispetto della policromia dei privilegiati.
Dichiarati pericolosi (pure tradotto da Evelina Croce) presenta invece una variazione sul tema dei non umani più umani degli umani. «L’intera serie di modelli JB Robots è stata dichiarata non conforme alla normativa e dev’essere pertanto sostituita»: l’annuncio scatena la ribellione di una famiglia rurale, guidata dalla matriarca Margaret Ashton, che rifiuta di consegnare il vecchio automa Tom, affrontando con caparbietà l’arroganza del potere. La forza della famiglia, e per estensione della comunità, deve però passare attraverso la consapevolezza e l’unità, perché, anche in questo caso, nessuno si salva da solo. Splendido il finale, che richiama il rispetto per ogni forma di vita provato da un’anima bambina.
Olga Chigirinskaya è nata il 7 ottobre 1976 a Kryvyj Rih e «vive a Dnipro, una grande città industriale in Ucraina. Suo padre, ingegnere spaziale presso l’ufficio di progettazione di Yuzhnoye, le ha trasmesso l’amore per la fantascienza, perché lui stesso era un grande appassionato del genere».
Dea di ferro della misericordia, il testo apparso sull’antologia Fioriranno i meli su Marte nella traduzione di Silvia Carli, non è un racconto di fantascienza: è la profezia lucida di un futuro prossimo che l’autrice vorrebbe, ma non sa e non può, fermare; è la visione di una donna capace di cogliere nel loro manifestarsi i segni dell’incomprensione e dell’intolleranza, che portano a non dialogare con l’altro e a considerarlo sempre e comunque nemico; è la sceneggiatura di quello che accade tra Russia e Ucraina.
La comunità multiculturale che opera in una acciaieria siberiana, in un tempo altro rispetto a ora, costituisce il punto di partenza della narrazione di una guerra passata/futura tra le due nazioni, una guerra resa inevitabile dalla propaganda e dal militarismo, dalla censura imposta alle parole della pace, dall’appartenenza che finisce per opporre l’io narrante Sasha (ucraina, interprete, già resistente) al compagno di lavoro Pasha (russo, capoturno, nazionalista). Il racconto – dichiara l’autrice sul suo sito – risale al 2012 ed è stato scritto per «trollare» (ovvero disturbare pesantemente) Sergey Chekmaev, autore di science fiction dichiaratamente filorusso. Due anni dopo, il 6 aprile 2014, ha inizio la guerra nel Donbass. «In Ucraina c’è una battuta che fa: “Vado a sparare ai Moskali [peggiorativo di Moscoviti in ucraino]”, “E se loro sparano a te?”, “Perché, cos’ho fatto per meritarmelo?” Per molti non è una battuta. – è l’amara considerazione della protagonista − “Andiamo a caccia di ucraini”, “E se loro ci rispondono?”, “E che motivo avrebbero?”».
Rispetto alle autrici precedenti – Davydova, Michalkova, Chigirinskaya, pur interessanti – K.A. Teryna è di un altro livello: originale, libertaria, fantasiosa, con Il pilota di stagno (traduzione di Evelina Croce) scrive un piccolo capolavoro. Ecco la sua scanzonata presentazione: «nata il secolo scorso oltre il Circolo Polare Artico, è cresciuta al 48° parallelo dell’emisfero settentrionale, ha studiato all’università qualcosa di cui però non si occupa affatto nella sua vita da adulta»; ha pubblicato il suo primo racconto di fantascienza nel 2008, e da allora ne ha dati alle stampe oltre quaranta, aggiudicandosi premi nazionali e internazionali; è anche illustratrice espressiva e ironica.
«“E se…” è proprio così che iniziano le cose peggiori al mondo. E anche qualcosa di bello, certo». In un tranquillo lunedì mattina come tanti, accanto alla compagna Maška e al gatto Birba, nella psiche di Noè, il protagonista, l’ipotesi impossibile si trasforma lentamente fino a diventare possibile, probabile, certa. Anni prima, diciassettenne, Noè avrebbe voluto arruolarsi come pilota, ma gli avevano detto di no, come ormai a tutti uomini: «Furono i golem a combattere gli ultimi anni della guerra al posto loro. E furono i golem a tornare, guadagnarsi medaglie, canzoni e terribili ricordi. Il mondo che ci era stato donato era ormai vuoto e mutilato», lasciato agli esseri umani peggiori (i migliori, come sempre, erano morti) perché lo ricostruissero. E quel venerdì vi sarebbe stata la caccia all’ultimo golem rimasto, l’ultimo androide, che anziché essere onorato come eroe sarebbe stato terminato in quanto potenzialmente pericoloso: «Certo, i golem non erano persone vere e proprie e nei loro corpi sintetici scorreva sangue artificiale, ma se loro non si erano guadagnati il diritto di vivere su questa terra bruciata, allora noi, a maggior ragione, non lo meritavamo». La dicotomia è dunque, ancora una volta, tra umano e non umano: «Per alcuni era più facile credere che degli uomini artificiali fossero stati deviati da un difetto di fabbrica, piuttosto che vivere pensando di essere uguali a loro in tutto e per tutto». Così riflette Noè, inquieto, e al risveglio si sorprende a stringere «un soldatino di stagno» (sì, come il coraggioso protagonista della fiaba di Hans Christian Andersen), che è giunto a lui per via patrilineare, dal padre, dal nonno, dal padre di questo… Un pilota dal viso ammaccato, così come la guerra ha lasciato dolore e orrore nell’umanità: «Eravamo mutilati. Uomini che si nascondevano dalla guerra; ragazzi che non avevano fatto in tempo a crescere prima di diventare soldati; donne invecchiate prima del previsto; ragazze che non sarebbero mai diventate madri». Questo racconto di K.A. Teryna, oltre che bello, è un inno alla pace − la guerra è follia − e un apologo sulla tolleranza, l’accettazione, l’umanità, con un finale sorprendente, un doppio colpo di scena: imperdibile e indimenticabile.
Non è questa la prima pubblicazione della giovane autrice per Future Fiction: nel 2019 le è dedicata una breve antologia bilingue (in russo e in italiano), Медуза / Medusa, che comprende quattro racconti: Medusa (2013), Fatamorgana (2014), Hunky-dory (2016), Krözelcikus (2012), già antologizzati in patria nel 2017 e tradotti da Olga Matsyna ed Evelina Croce. Sono quattro «storie di liberazione. O di un tentativo di liberazione, che non ha certo meno valore. – scrive il critico Nikolaj Karaev nell’introduzione ai testi – Katerina è una scrittrice metafisica, vuole andare oltre il nostro sistema di coordinate; possiede quella che in Occidente viene definita una tendenza a ciò che è trascendentale, in Oriente una capacità di oltrepassare i limiti dell’illimitato».
Medusa è ambientato all’interno di una non realtà, il Socium, la Mente Sociale, al cui interno vigono le regole di un social network, di cui il racconto rappresenta un’irriverente e riuscitissima parodia, con i like, i rating negativi, i video virali zeppi di pubblicità: «ogni video era talmente triste e uguale all’altro che sembrava prodotto da brandelli di contenuti triturati, senza altre elaborazioni». Qui si aggira Kalinka, che coglie l’inatteso passaggio di una piccola, preziosa medusa (consegnata all’Ufficio Amministrativo vale ben 10.000 like!) per tentare la fuga da questa dimensione di «invadenza e indifferenza», oltre che terribilmente classista, divisa com’è in Atti, popolari e potenti, e Indi, deboli e anonimi; alla vicenda di Kalinka («la sociopatica») si intreccia quella di Julen’ka: i due punti di vista si ricongiungono e trovano senso nel finale.
Fatamorgana è forse il racconto più bello della raccolta: in una Mosca staliniana e ucronica (il Cremlino è «distrutto, ingrigito») K.A. Teryna crea un universo parallelo, «cupo, morto, insensato»; un luogo concentrazionario (memore dei lager nazisti e dei gulag sovietici), privato anche del dono della morte, con un mondo di sotto ove sono i vivi e un mondo di sopra ove sono i non morti, lavoratori schiavi sorvegliati dai karl, esseri meccanici dalle «articolazioni arrugginite», controllori « spietati e sospettosi» che impediscono loro «di tornare giù nel caldo Ipogeo, tra i vivi». Malinconici (l’unica gioia è «quella di poter vedere il cielo»), quasi senza memoria (per quanto, talvolta, un particolare fa «fermare gli occhi e lacrimare il cuore»), per essere produttivi e continuare a scavare la torba dal ghiaccio i non morti devono sottoporsi a una ricarica periodica di elettra, rischiando sempre di scivolare nella condizione ancora più degradata di vampiri, inesorabilmente perdendo la propria umanità. Bellissimo il finale, nel quale il protagonista Mainz, stanco e disilluso, riceve il dono del dubbio dal novello non morto Alëška…
Meno convincente Hunky-Dory: interessante l’idea di partenza (mediata dal celebre film Fantastic Voyage di Richard Fleischer, 1966) di una realtà endo (interna) e una eso (esterna), condivisibile l’assunto in base al quale anche le cellule non perfette possono essere utili all’organismo che le ospita, simpatici i personaggi che via via rivelano la propria natura, ma la struttura del racconto, soprattutto nell’ultima parte, presenta qualche cedimento. Non del tutto risolto anche Krözelcikus, vicenda fantastica di gusto poliziesco calata in una topografia austroungarica, in cui il triste protagonista è custode di un segreto che lo anima e lo porta alla rivolta contro il tetro regime dei grigi.
La guerra è follia: K.A. Teryna, scrittrice che ha talento e coraggio, lo dichiara non soltanto nella propria narrativa, ma anche, il 1° marzo scorso, sul proprio profilo Twitter (mentre sul proprio blog promuove un libro in solidarietà con la popolazione civile ucraina): «Ho vissuto in Ucraina per oltre venticinque anni, vivo in Russia da oltre dieci anni. Odio quello che sta succedendo ora e non capisco come siamo arrivati a questa maledetta guerra».
In copertina. Gino Andrea Carosini, Anna Starobinets.
Articolo di Laura Coci