Una delle poche passeggiate a contatto con la natura, partendo dal quartiere semicentrale dove abito nella cittadina lombarda di Lodi, è quella che si può fare percorrendo, dapprima, la via Vecchia Cremonese, per prendere poi la via del Costino e, scavalcata la Tangenziale Sud, arrivare alla Cascina Costino, fatiscente e semiabbandonata, anche se in uno dei suoi cortili a volte si intravvedono, parcheggiati, dei veicoli. Da lì ci si può avviare verso quella che viene chiamata “Foresta di Pianura” oppure andare verso il fiume Adda, raggiungendo la strada vicinale per la Cascina Valgrassa. Dalla Cascina Costino parte una stradina sterrata che attraversa campi in parte incolti lungo la quale ci si incammina verso una piccola cappella, intitolata a non meglio identificati “Morti d’Arabia”.
Non ci sono scorci paesaggistici di particolare interesse, ma è comunque piacevole lasciarsi alle spalle il rumore della città e rincorrere i propri pensieri, nel silenzio rotto solo dal suono dei passi di rari viandanti o dal cinguettare di qualche piccolo volatile.
Ci mancò poco che quel volumetto, rozzamente rilegato e dall’aspetto vagamente disturbante, sfuggisse alla mia attenzione: era appoggiato, seminascosto dall’erba alta, ai bordi della stradina; grande come un piccolo blocco per appunti, piuttosto spesso, aveva un’aria decisamente incongrua per quel luogo. Sembrava fosse stato appoggiato a terra a bella posta, non gettato via o accidentalmente smarrito.
Era vergato a mano, con calligrafia tremolante ma chiaramente leggibile, in un italiano con forti influenze dialettali e uso di termini a volte obsoleti ma facilmente comprensibile; sul frontespizio era indicato il nome di un certo Friedrich Wilhelm Von Junzt, del quale erano riportate anche le date di nascita e morte (1795-1840), null’altro.
Mi ripromisi di dare un’occhiata più approfondita al volumetto, senza dubbio di qualche interesse, una volta rientrato a casa dalla passeggiata; in quei giorni funestati dalla pandemia non c’era molto altro da fare: niente cinema, né teatri, niente ristoranti. Al bar, al massimo, un fugace cappuccino o caffè consumato in piedi, quasi clandestinamente. Io vivevo solo da molti anni e l’apparente libertà non compensava una solitudine che la prolungata, difficile situazione, accentuava.
Lessi quella che, con tutta probabilità, era la traduzione di un capitolo o di uno stralcio di un testo più ampio: vi si parlava di un grande lago paludoso, scomparso da tempo quando i Sapiens avevano avuto la meglio sui Neanderthal, senza fornirne una precisa collocazione e attribuendogli un nome quasi impronunciabile: Grhnd’yo.
Decisi che si trattava di un mucchio di sciocchezze senza senso e appoggiai il libriccino in un angolo dello scaffale meno raggiungibile di una delle librerie di casa, dopo aver deciso di non gettarlo solo perché si trattava in qualche modo di una curiosità antiquaria.
Trascorsero alcuni giorni noiosi, senza che accadesse nulla di particolare; poi, una notte, feci un sogno particolarmente vivido: mi aggiravo smarrito in una caverna fredda e umida, non del tutto buia grazie a una luminescenza diffusa che permetteva di distinguere i contorni e di muoversi con un minimo di agio. Si sentiva in lontananza un rumore di risucchio, ripetuto, senza un ritmo preciso e non sempre di uguale intensità sonora; man mano che procedevo, il suono si fece più distinto e forte, fino a quando davanti ai miei occhi non si aprì un grande sotterraneo dall’aspetto solo in parte naturale. Artificiale era, senza alcun dubbio, un’alta pedana di pietra lavorata e curiosamente decorata, con glifi in altorilievo, a volte ripetuti quasi a formare un linguaggio scritto.
Sopra la pedana si agitava, senza sosta, un viluppo di tentacoli e di appendici, apparentemente estroflesse da un corpo centrale vagamente ovoidale grande all’incirca quanto una grossa botte, dalla forma e dal colore perennemente cangianti. I tentacoli si attorcigliavano attorno alle appendici, più corte dei tentacoli e di forma cilindrica, muovendosi ritmicamente avanti e indietro senza senso apparente.
Dai cilindri a volte uscivano getti di materia viscosa che venivano poi riassorbiti tramite un sistema che non riuscivo pienamente a comprendere, ma che comportava improvvise formazioni di aperture circolari dalle quali fuoriuscivano lunghe protuberanze risucchianti: erano quelle a produrre il rumore che avevo udito nell’avvicinarmi al luogo dove ero giunto nel mio sogno.
L’essere sulla pedana non diede alcun segno di aver percepito la mia presenza, questo mi rassicurava; ma in me cominciarono a formularsi pensieri estranei, come provenienti da una incomprensibile mente aliena; di fatto, privo di volontà e di alcun controllo sul mio corpo, mi avvicinai alla pedana e mi spogliai completamente. Fu allora che mi risvegliai sudato e in preda al panico, con la sensazione, ancora ben presente, che una delle protuberanze si stesse avvicinando al mio corpo e che io, ardentemente, desiderassi questo contatto.
Questo sogno, fin troppo vivido e realistico, mi mise addosso una certa agitazione; i particolari, anche quelli che avrei fatto volentieri a meno di ricordare, erano persistenti nella memoria; pensai che, forse, erano state le sciocchezze contenute in quel volumetto manoscritto ad avermi suggestionato.
Più tardi, quasi fosse una forma di cura omeopatica, lo ripresi dallo scaffale per proseguirne la lettura; fu così che vi appresi della supposta esistenza di un grande lago, forse un acquitrino paludoso, che copriva un’estensione di territorio compresa tra gli attuali fiumi Adda e Serio, coincidente con parte delle odierne province di Bergamo, Cremona e Lodi; in questa zona sarebbe vissuta, secondo una leggenda, una creatura mostruosa, chiamata Tarantasio, che faceva strage di uomini e il cui alito ammorbava l’aria; ne restava traccia nel nome di alcune località, ad esempio Taranta, nei pressi di Cassano D’Adda, e nello stemma nobiliare della famiglia Visconti di Milano. Su quando e come lago e mostro fossero scomparsi esistevano molte congetture, ma nessuna certezza storica.
Von Junzt sosteneva che, in realtà, il nome di questo territorio fosse in origine Grhnd’yo, divenuto poi, col passare del tempo, quello riportato nelle leggende locali, e che il territorio si fosse prosciugato nel corso dei millenni, sia per eventi naturali che per opera dell’uomo. Quanto all’essere divenuto nelle storie popolari Tarantasio, la grafia corretta veniva precisata come Trnt-asy’hh, indicato come un “Antico minore”, un’entità decerebrata, correlata in qualche modo a una divinità rappresentativa di un culto della fertilità – almeno così si sosteneva nel libriccino – chiamata Shub Niggurath, la cui realtà era stata, in tempi più vicini a noi, celata pietosamente sotto il nome di Ishtar o Astarte. La cosa più interessante tra quelle scritte da Von Junzt era che il culto di Trnt-asy’hh non si era perduto nel tempo, ma continuava a essere professato in segreto da una ristretta cerchia di adepti, e che l’entità si sarebbe celata, o lo sarebbe stata, in un luogo sotterraneo all’interno del perimetro del lago scomparso. L’autore sosteneva che sopra tale ipogeo sarebbe stata eretta nel 1786, pochi anni prima della sua nascita, una cappelletta ospitante resti di vittime di saccheggi e violenze, quella intitolata ai “Morti d’Arabia”; secondo lui tale denominazione era evidentemente senza senso e volutamente fuorviante: il vero destinatario della dedica sarebbe stato un “Arabo Morto”, da lui identificato con un certo Abdul Alhazred, e i resti ivi contenuti sarebbero appartenuti alle vittime di sacrifici umani volontariamente compiuti, in onore di Trnt-asy’hh, da parte di alcuni dei suoi adoratori.
Altro non veniva precisato sulla faccenda e l’autore passava a ulteriori argomenti, con una prosa appesantita da uno stile quanto mai involuto e da un’infinità di riferimenti a luoghi e nomi sempre più inverosimili.
Riposi di nuovo il volumetto sullo scaffale dal quale lo avevo preso e mi misi a pensare a quanto scritto da Von Junzt: io quella cappellina la conoscevo bene, una piccolissima costruzione di poco interesse e di scarso pregio architettonico, la cui unica utilità era quella di fare da punto di riferimento per camminatori e runner della zona; mi sembrava inverosimile che quanto avevo letto avesse una sia pur labile attinenza con la realtà. Di fatto la cappellina era una piccola costruzione abbastanza anonima, sormontata da una tettoia sporgente sui quattro lati e sostenuta da rinforzi, raggiungibile tramite un sentierino invaso e circondato da vegetazione incolta. Tutto qui.
Dopo qualche giorno rifeci un sogno molto simile al precedente: stessa caverna fiocamente illuminata, stesso sotterraneo con al centro la pedana-altare con sopra l’osceno essere privo di una forma precisa intento nella sua attività di espulsione e successiva suzione dei suoi stessi fluidi corporei; di nuovo, nel sogno, di mia spontanea volontà mi avvicinavo a lui, liberandomi dei vestiti; il contatto con il tentacolo non mi creava disgusto o paura, anzi, la mia mente era attraversata da ondate di piacere tali da indurre il mio sesso a una rigidezza non così usuale da molto tempo.
Il tentacolo si mosse e il risultato fu che a mia volta rilasciai un po’ di fluido, prontamente assorbito da una delle protuberanze risucchianti; non per questo l’azione del tentacolo terminò, né la sensazione psichica e fisica di piacere si attenuò, tanto da provocare un secondo orgasmo ma anche una forte accelerazione del battito cardiaco e un respiro affannoso. Quando l’azione insistita del tentacolo mi provocò una forte sensazione di malessere sovrapposta al persistente piacere, mi svegliai sudato. E con le lenzuola umide.
Alla mia età non ero certo contento di questa malsana attività onirica, anche se non ero mai stato un moralista bacchettone; ma questa faccenda mi aveva creato un senso di disagio che non riuscivo a eliminare; e il riprendere in mano il libriccino manoscritto non migliorò la situazione.
L’autore, nel prosieguo di quanto avevo già letto, si soffermava a descrivere, in modo che definire nebuloso è decisamente un eufemismo, un’altra entità dal nome improbabile, chiamata Nyarlathotep. Da quanto era dato capire, la principale caratteristica di questa entità era un atteggiamento maligno di fronte a qualsiasi forma vivente, tramite una costante ricerca finalizzata a trovare nuovi modi di provocare sofferenza e disagio, anche se non direttamente la morte. Veniva descritto come un mutaforma, in grado di presentarsi sotto sembianze sempre diverse, a volte anche umane. Un messaggero al servizio di altre entità, attraverso lo spazio e il tempo, ma anche una specie di tutore per quelle, fra di loro, non in grado di provvedere a sé stesse; qui si accennava nuovamente a Trnt-asy’hh, quello definito un “Antico minore”, completamente decerebrato e quindi non in grado di espletare una qualsiasi forma di pensiero cosciente, e neppure in grado, quindi, di provvedere alle proprie necessità, se non in modo istintivo: toccava quindi a Nyarlathotep occuparsi di lui e trovare il modo perché la soddisfazione dei suoi bisogni fosse adeguata.
Interruppi nuovamente la lettura e mi dedicai alle minute faccende della giornata di un solitario uomo di mezza età; tra un’incombenza e l’altra cercavo di capire se c’era qualcuno in città col quale potermi confidare su tutta questa vicenda e pensai che l’unico adatto era un’artista trasferitosi da qualche anno a Lodi, una curiosa figura di musicista d’avanguardia con interessi anche nella letteratura del bizzarro e dell’orrore, una persona colta e gentile che avrebbe potuto ascoltarmi senza prendersi gioco di me.
Ci incontrammo così in un bar di Viale Rimembranze che, avendo alcuni tavolini un po’ isolati da una parete divisoria, concedeva un minimo di tranquilla intimità adatta a un colloquio; così, sorseggiando un prosecco accompagnato da alcuni stuzzichini, raccontai al mio amico musicista la vicenda del libriccino, del suo contenuto, e dei sogni. Lui si fece molto serio in volto e disse che alcuni nomi tra quelli da me riferiti non gli erano ignoti, a cominciare dal messaggero oscuro, Nyarlathotep. Mi disse anche che Von Junzt, come Nyarlathotep, era un’invenzione dello scrittore americano Howard Phillips Lovecraft, così come pure un’invenzione era il libro a lui attribuito. E che probabilmente il volumetto scritto a mano che avevo trovato era parte di qualche complessa burla architettata chissà da chi e per quale scopo, quindi di non preoccuparmi troppo, anche se la faccenda degli incubi notturni restava spiacevole. Parlammo ancora di argomenti innocui e, grazie al senso di sincera amicizia e di simpatia che emanava da lui, mi rasserenai.
Mi consigliò, per l’ennesima volta, di uscire dal mio stato di vita monacale e cercarmi una brava donna con la quale condividere la seconda parte della mia vita, prima di farmi trascinare dal gorgo della depressione, situazione che lui conosceva molto bene per averla vissuta prima del positivo cambiamento che lo aveva portato nella mia città.
Tornato a casa, riposi il libriccino sullo stesso scaffale già utilizzato altre volte e cercai di dimenticarmene. E così in realtà fu per alcuni giorni, durante i quali annegai la mia solitudine nel lavoro e nelle idiozie trasmesse dalla televisione. Una sera, particolarmente istupidito dalla stanchezza e da troppe ore davanti allo schermo, mi ritrovai a camminare verso la campagna, di notte. La sensazione era quella tipica del sogno, di straniamento dalla realtà: la luna era troppo grande e ammiccante, gli alberi sussurravano malignità mentre passavo loro accanto; mi sembrò perfino che qualcuno occhieggiasse verso di me dalle imposte sbilenche di una finestra della Cascina Costino.
Avevo in tasca il libriccino, non mi ero nemmeno reso conto di averlo portato con me; trovai al chiarore della luna la stradina di campagna e mi avviai verso la cappella dei “Morti d’Arabia”; arrivato a circa trecento metri dalla mia destinazione, uscii dal sentiero e camminai nell’erba alta e incolta, inconsapevole del perché. Mi accorsi che c’era un’apertura nel terreno, dalla quale si intravvedeva una scala di pietra ripida e dai gradini stretti, che portava verso una profondità indistinta. Malgrado ciò io non ebbi esitazioni e mi avventurai nel sottosuolo con un misto di ansia e curiosità.
Mi ritrovai nella caverna umida e fiocamente illuminata che già conoscevo, non ebbi esitazioni a seguire un percorso, ormai familiare nei miei sogni, fino a giungere alla grande sala dove al centro il mio destino era in attesa. Tolsi il libriccino dalla tasca, appoggiandolo con delicata venerazione davanti all’altare, poi mi spogliai completamente aspettando il dono di Trn’t-asy’hh.
Molto più tardi, un’ombra nera raccolse il libriccino, guardò con disgusto il corpo senza vita di chi si era immolato per il piacere del dio decerebrato e si allontanò. Poco dopo la stessa ombra senza forma depose il manoscritto più o meno nello stesso punto in cui era stato trovato dalla più recente vittima della insaziabile bramosità dell’abitante della caverna sotterranea, poi si allontanò nello spazio e nel tempo, pensando che avrebbe dovuto fare qualcosa per dare ordine a tutta la faccenda. Avrebbe dovuto pensarci lui, come al solito.